Giustizia, Pace, Integrità del Creato
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Land Grabbing. Gli appelli non servono a gran che.

Newark 21.12.2012 Gian Paolo Pezzi, mccj Tradotto da: Jpic-jp.org

Appelli, lettere di Missionari, proteste e denunce: dal Forum Social Mondial di Dakar nel 2011 si sono moltiplicati, ma il fenomeno continua tranquillamente. E se ci fossimo sbagliati di strategia?

 

L’11 febbraio 2011, in un’assemblea generale, organizzazioni di contadini, ONG, sindacati e altri movimenti civici, riuniti a Dakar per il Forum Sociale Mondiale, lanciavano un appello contro l’accapparramento della terra: “I recenti accaparramenti massicci di decine di milioni di ettari a profitto d’interessi privati o di stati terzi, sono contrari ai diritti umani, perché privano le comunità locali, indigene, contadine, pastorali e dedite alla pesca artigianale dei loro mezzi di produzione e limitano il loro accesso alle risorse naturali, privandole della libertà produttiva”.

I missionari, riuniti nei loro Forum Sociali paralleli, vi hanno unito la loro voce, che sgorga dalla fede: “Vogliamo continuare a impegnarci per assicurare che l’Africa non subisca un altro genocidio a conseguenza del Land grabbing”, decidevano per esempio i Missionari Comboniani.

L’accaparramento delle terre coltivabili è, in effetto, una delle minacce principali che pesano oggi sulla sovranità alimentare di molti paesi, soprattutto in Africa, ed è diventata anche una questione centrale per il futuro.

A causa anche dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli, si assiste à una vera corsa verso la terra. “I compratori sono delle imprese come Daewoo in Madagascar, degli Stati importatori che comprano delle terre per coltivare prodotti destinati all’esportazione o alla produzione di agro-carburanti”, afferma Ambroise Mazal in una intervista pubblicata in Alternatives Economiques. “Dopo la crisi finanziaria, vi si sono aggiunti anche gli speculatori. Qui si parla di terre comprate o affittate con contratti a lunga scadenza per superfici di decine di migliaia d’ettari. Secondo la Banca Mondiale, si è passati da 4 milioni di ettari ceduti in media ogni anno, nel corso dell’ultimo decennio, a 45 milioni nel solo 2009: il fenomeno si è quindi moltiplicato per dieci!”.

Queste cessioni di terre avvengono in paesi poveri o in via di sviluppo, dove il diritto di proprietà è molto fragile, dove la gestione delle terre è regolata da abitudini informali o tradizionali, dunque da leggi che hanno un valore solo locale. Il diritto di proprietà non è assicurato da accordi internazionali; questo comporta che il piccolo agricoltore non può provare d’essere il proprietario della terra che coltiva e che possiede da molte generazioni.

L’uso di queste terre da parte di gruppi stranieri è fatale per i bisogni delle popolazioni locali con le quali essi entrano in concorrenza. “Nel Mali, sulle terre fertili lungo il fume Niger –cita come esempio Ambroise Mazal-, dei compratori libici hanno fatto spostare intere popolazioni, sconvolto cimiteri per realizzare i loro progetti agricoli. Le popolazioni locali si rendono conto di questo quando ormai è troppo tardi”.

Investire nell’agricoltura è essenziale perché un paese possa avere la sua autonomia alimentare; ma questo deve avere come obiettivo il bene delle popolazioni locali, facendo leva sulla produzione agricola alimentare e l’agro-ecologia e non gli interessi delle compagnie multinazionali o anche di certi settori statali: il diritto all’uso della terra è un diritto naturale e primordiale, è un valore universale di ogni essere umano e nessun altro diritto economico può avere il sopravvento su di esso. Peggio ancora se ciò che entra in gioco è l’eliminazione di intere comunità umane. “L'investimento straniero non è di per sé una fonte di sviluppo; può anzi destabilizzare i sistemi socioeconomici locali”, conclude Ambroise Mazal.

Cosa fare allora per combattere questo fenomeno?

La società civile, nel corso dell’ultimo Forum Social Mondial di Dakar, nel suo Appello ha dato delle indicazioni: “Facciamo appello ai parlamenti e ai governi nazionali affinché sia posto fine immediatamente all’accapparramento massiccio di terre, sia di quello già in corso sia di quello che si progetta; chiediamo che le terre prese siano restituite. Esigiamo dai governi di cessare ogni oppressione e criminalizzazione dei movimenti di lotta per la terra, e di liberare i militanti che sono stati illegalmente imprigionati. Dai governi esigiamo che preparino un quadro effettivo di riconoscimento e di regolazione dei diritti di proprietà di chi utilizza la terra, attraverso una consulta di tutte le parti in causa e prima di cedere qualsiasi proprietà. Questo esige porre fine alla corruzione e al clientelismo che rendono nullo ogni tentatico di gestione condivisa della proprietà agricola”.

Ambroise Mazal, responsabile di missione presso CCFD-Terre Solidari, nel suo colloquio con Alternatives Economiques n° 300 - marzo 2011 si esprime allo stesso modo: “Chiediamo ai governi lo stop immediato di queste cessioni di terre ad attori stranieri. Gli Stati del Sud devono prendere in conto le loro popolazioni, voltare le spalle al miraggio degli investimenti stranieri ricevuti senza controparte alcuna, sia in termini di ripartizione delle ricchezze prodotte sia di rispetto delle popolazioni locali”.

Quali sono i risultati ottenuti? Nessuno, dobbiamo ammetterlo: il fenomeno continua, le grida di allarme si ripetono, si moltiplicano i proclami e gli studi, anche perché “questa battaglia a livello delle idee è pure una battaglia diplomatica, nella quale gli Stati del Sud, mano nella mano con le multinazionali del Nord, spesso si oppongono a qualsiasi regolazione”, afferma Ambroise Mazal.

E allora?

L’Appello di Dakar esigeva giustamente che le Unioni Regionali degli Stati, la FAO, le istituzioni nazionali e internazionali mettano in pratica ciò che, nel 2006, era stato deciso durante la Conferenza Internazionale per la Riforma Agraria e lo Sviluppo Rurale (CIRADR), e cioè: rendere sicuro il diritto di proprietà degli utilizzatori, rilanciare il processo delle riforme agricole basate sull’accesso giusto alle risorse naturali e lo sviluppo agricolo per il benessere di tutti. L’appello chiedeva anche che le Direttive della FAO a questo proposito fossero rinforzate.

Affinché questi organismi agiscano in questo senso, però, occorrono strategia e coordinazione tra la società civile (cominciando con le ONGs) presente negli organismi internazionali - ONU, FAO, Parlamento europeo, AU - e le organizzazioni di base che lavorano sul terreno. Altrimenti si arriverà al prossimo Forum Sociale Mondiale di Tunisi con lo stesso problema, che nel frattempo si sarà aggravato, con le stesse grida di proteste ancora più altisonanti, con gli stessi sentimenti di frustrazione e gli stessi risultati, vuoti e inutili.

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