Un pensiero che è un augurio per la Pasqua di questo 2024.
William Shakespeare diceva, L’unica cosa che non ha soluzione è la morte. Gesù, un ebreo marginale e marginato, ci mostra che anche la morte ha una risposta nella Pasqua, perché è il “pesah”, il “passar oltre” del Signore non più risparmiando il suo popolo ed uccidendo il nemico, ma dando ad ognuno la forza dello Spirito di “andar oltre”, di dare “un passo in più” nonostante tutto. Allora è Pasqua.
In questi mesi, due sono stati per me i passi “d’andare oltre”.
Nonostante le difficoltà l’Iniziativa per la pace e il bene comune ha iniziato a prendere forma. Lo spazio nella Casa comune del clero, anche se deve ancora essere completato nell’attesa dell’ultimo con-tributo promesso, è già in misura di accogliere le iniziative forma-tive. Una bozza del programma formativo alla Giustizia e alla Pace, che comincerà per il clero e i religiosi, è stata presentata al Vescovo. Non solo.
Il Manifesto dell’Iniziativa indicava nelle azioni decise e realizzate in unità d’intenti, l’unico vero cammino per una rivoluzione etica e civica capace di condurre alla pace. Per dare forma e mostrare che la voglia e la capacità di lavorare insieme è possibile e necessaria è nata l’idea di un’azione comune per il bene dei carcerati di Kakwangura, la prigione centrale di Butembo. Vi si trovano circa 1000 prigionieri di cui lo Stato non si prende assolutamente cura.
Da sempre per iniziativa privata, i gruppi di diverse confessioni religiose e di solidarietà umana, hanno cerato di sopperire a questo vuoto portando cibo, vestiti, medicine, assistenza giuridica. Si sono però create situazioni incresciose: nei giorni di festa o nelle date significative, come il Natale, la festa della donna, il giorno dell’indipendenza, le carceri s’affollano di gente di buona volontà con i loro regali; poi per lunghi periodi c’è il vuoto o un’assistenza sporadica o perfino, per la scarsità degli aiuti, esclusiva. Si sono verificati casi di morte di fame.
Attraverso incontri si è riusciti a coinvolgere tutte le chiese e le organizzazioni civili in un piano annuale d’assistenza ai carcerati che, per evitare confusione, sospetti o ingerenza è stato presentato alle autorità civili, anche se in parte è già funzionale.
Grazie al messaggio d’una persona a me cara fin dai tempi del Burundi un’idea, che maturava in sordina ha preso forma per “un passo in più”, un “andar oltre”. Mi scrive che le ha provocato un “sorriso bonario” la mia considerazione: morire in missione è sogno romantico ma poco cristiano perché spesso le conseguenze cadono sopra gli altri. E aggiunge: Hai proprio ragione… ed è valida in tutti quei contesti caratterizzati da fragilità, imprevisti, smarrimenti, precarietà.
La morte non fa paura che a chi rifiuta di morire un po’ ogni giorno per vivere più intensamente. D’altronde, chi è un cristiano se non un pagano sulla via della conversione? In realtà, “fino all'ultimo restano in noi zone di incredulità la cui scoperta a volte ci sorprende” (Roger Schutz). E l’evento radicale che precede ogni risurrezione è allora respinto fino a quando accade improvvisamente.
Poi alcune sere fa ho avuto una simpatica conversazione. Una persona con cui ho condiviso emozionanti momenti di vita cristiana, di lavoro professione, d’apostolato in Esmeraldas (Ecuador), mi ha confidato la sua serenità nell’aspettare l’esito di una biopsia ai polmoni per dei segni multipli di tumore. E questo mi ha confermato nel mio proposito.
In spagnolo dicono “despedirse” che è un po’ il dirsi addio, un po’ l’arrivederci, un qualcosa come congedarsi da qualcuno portandolo sempre nel cuore. Ho dovuto sistemare le cose private di confratelli e, in un paio di casi, mandare notizia della loro morte ad una lista di sconosciuti. Mi pare bello, invece, che sia io stesso a prendere congedo, a “despedirme” appunto, nella misura del possibile, dalle persone che hanno condiviso almeno in parte la mia vita, la mia missione. È un’occasione per chiarimenti, per risentire la gioia senza nostalgia dei momenti lieti, entusiasmanti, affettuosi condivisi e magari per una riconciliazione. Kahlil Gibran scrisse: “Se ci confessassimo a vicenda i nostri peccati, rideremmo per la nostra totale mancanza di originalità”.
Dice il proverbio, "Per ottenere qualcosa che non hai mai avuto, devi fare qualcosa che non hai mai fatto”. Questa è l’occasione. Sia chiaro. In aprile, rientro in Italia per il solito periodo di vacanze che serve anche a rinnovare il passaporto, la patente, la carta d’identità. Ho fatto qui sul posto i controlli “di legge” per gli ottantenni. Al medico che mi leggeva i risultati nel suo linguaggio tecnico, un po’ pomposo, ho chiesto: “Dica, in sintesi, devo cominciare a preparare il mio funerale?” Mi rispose bonario: “Non proprio, mi dispiace, ma dovrà aspettare ancor un bel po’!”
Ecco, sono in ottima forma e questa lettera di gruppo, che è anche un po’ di commiato, continuerà ad arrivarti due o tre volte l’anno per a raccontarti quanto vivo e faccio. Un saggio ha scritto: “Ai quei tempi ci fu il diluvio d'acqua e si salvò Noè con la sua famiglia. Ai nostri giorni c'è un altro diluvio, quello di parole; e da quello non si salva nessuno". Ma presto o tardi arriverà il giorno “del silenzio” e ti annunzierà che l’arrivederci è diventato ormai veramente un “A Dio”.
Buona Pasqua a te e alle persone a te care.
Ti ricordo: jampypezzi@gmail.com – WhatsApp +39 328 732 6990 – www.jpic-jp.org
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