Sembra un racconto di un libro sul Natale. Invece spunta dal diario sdrucito d’un missionario da strapazzo, ed è la vita di una infelice bambina, spersa nel cuore dell’Africa. Il suo nome è Veronica, sì come quella del Vangelo: un po’ di fede e d’umanità basta per riconoscervi l’Emanuele venuto a noi 2000 anni fa.
Era apparsa un pomeriggio verso le tre, quando il sole cocente rende l’aria afosa e insopportabile nell’umida stagione delle piogge; mingherlina com’era, con una stuoia di foglie di banano sgualcita sotto il braccio, sotto il cesto delle sue cose, sporca, con una brutta piaga sotto il mento, non era bella da vedere. “Non so dove dormire e ho fame”, fu la sua presentazione. Seduta davanti all’ufficio parrocchiale aspettava le mamans della caritas per chiedere aiuto.
Me ne resi conto troppo tardi: un nugolo di marmocchi che uscivano dalle scuole l’avevano circondata e la guardavano con un misto di curiosità e ripulsa, non esente da paura e ribrezzo. Una lunga storia cominciava a snocciolarsi, con dettagli che ci sfuggivano e senza poter predirne la fine.
Si chiamava Veronica, aveva tredici anni ed era nata a due passi dalla parrocchia. Suo papà morì quand’era piccola. Con la mamma di Veronica non erano sposati né in chiesa, né in comune, né secondo la tradizione; nessun legame fra le famiglie dei genitori, nessuna corresponsabilità nei confronti dei bimbi. La mamma tornò alla casa paterna, lasciò la Chiesa cattolica per una setta e Veronica perse i contatti con la sua madrina di battesimo che in Africa è sempre una garanzia.
La mamma era morta due anni prima. Poco dopo, le crisi di malaria cerebrale, dai sintomi simili a quelli dell’epilessia, si intrecciavano con la pubertà incipiente: c’erano gli ingredienti per farne un dramma; lo zio materno che la ospitava insieme alla nonna, stanco nella crisi economica di avere una bocca in più da sfamare e le medicine da pagare, la dichiara mlozi, strega. L’improvvisa morte del suo ultimo figlio dona autorità all’accusa.
Veronica cominciò allora a vagabondare qua e là, da sconosciuti e parenti naturali, numerosi del resto secondo la tradizione africana: qualcosa da mangiare lo trovava, ma a condizione che non rimanesse nei paraggi soprattutto la notte.
Dietro il suo caso, altre storie di stregoneria cominciano a far capolino; tutte a carico di bimbi e donne anziane. Ne parlano anche i documenti dell’archivio parrocchiale. Decidiamo di fare qualcosa e, per cominciare, la mettiamo nella scuola elementare della parrocchia. Per qualche giorno le cose vanno bene, poi una crisi di malaria la rende invisa ai compagni. Incominciano a prenderla in giro e lei per farsi rispettare si getta a terra, ruzzola, si fa venire la bava alla bocca simulando le crisi di epilessia che ben conosce.
Con Veronica, ci siamo messi su una strada che non porta da nessuna parte: presentiamo ricorso al municipio, alle diverse associazioni, nulla. Tutti qui “conoscono” che la stregoneria esiste; il dubbio, se che questa bimba sia una strega, si dissolse come la rugiada all’alba. La sua malattia, le cattive abitudini contratte nei due anni di vagabondaggio, i gesti da epilettica che assume nei momenti di paura ne sono la prova convincente: è come se dicesse, Attenti eh! Sono una strega.
La nonna, lo zio, i parenti, i vicini, il capo quartiere tutti ne sono convinti. Più sicuri che c’è Dio. Veronica è una strega. Anche lei ne è convinta. Sotto domande insidiose, racconta chi, dove, quando e come le hanno dato l’ulozi (mlozi è la strega o lo stregone, ulozi è quanto ti fa tale). Per Veronica sarebbe stata un’anziana che vive sulla strada accanto, la quale invece nega tutto.
In città c’è una casa per i ragazzi di strada che dirige un sacerdote del Sacro Cuore, ma senza accesso per le bambine raggiunte da quest’accusa quando hanno fra i 5 e i 13 anni. Abbiamo comunque trovato una buona mamma che sembrava disposta a farsi carico di Veronica e con lei si spera aprire un centro per ragazze di strada. La voce che là c'è anche Veronica soffoca l'iniziativa sul nascere; proprio allora la signora ha un aborto spontaneo e Veronica naturalmente ne è la causa e viene rispedita in parrocchia.
Ci visitano due anziani, fratello e sorella, senza figli, sembrano il Gioacchino e l'Anna di certi dipinti rinascimentali. Vogliono fare qualcosa di buono per Natale. Accolgono Veronica come una missione affidata loro da Dio; troviamo la medicina giusta per la sua epilessia e Veronica incomincia a star bene, a voler perfino tornare a scuola. Tutto va per il meglio. La bimba rifiorisce, i due anziani ringiovaniscono con un'adolescente in casa, perfino i campi lavorati adesso anche da due giovani braccia che si vanno irrobustendo rinascono a vita nuova. Ogni quindici giorni viene in parrocchia dove la caritas rinforza il loro debole bilancio alimentare.
Ogni tanto ha delle crisi, si pone ribelle. Un giorno mi dice: “Mio padre non c'è più, la mamma è morta, mio nonno e mio zio mi hanno cacciata, fratelli né sorelle non ne ho”. Ecco il suo problema, il problema delle società che sotto la dittatura e la povertà vanno in frantumi. La paura e il bisogno senza la fede fanno ripiegare su se stessi e rendono incapaci d’amare. Anche nei paesi ricchi: il benessere diventa una proprietà da difendere a tutti i costi e contro tutti. S’instaura la paura dell’altro, si perde il senso della solidarietà, ci si chiude in zone protette.
Natale è un invito ad uscire allo scoperto, il coraggio di rischiare la propria vita per gli altri, la gioia della certezza nella propria fede e dell’esperienza che ne é all’origine, un Dio che si fa come noi.
Il segno del “pesce” ai tempi della persecuzione era il simbolo che permetteva ai cristiani di riconoscersi fra loro perché in greco la parola pesce ripete le iniziali di Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Forse il simbolo del Covid, la “mascherina”, potrebbe essere il richiamo per noi oggi ad uscire allo “scoperto”: “La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità”, disse Papa Francesco la notte del Venerdì Santo in piena pandemia. Discernere il cammino di guarigione e ripresa in mezzo a questa pandemia non è certo cosa per “lupi solitari”.
Aggiunta postuma. Veronica e i suoi nuovi “genitori” furono in quel Natale un simbolo: la bontà e la fede fanno scaturire vita, amore e accoglienza là dove prima c’erano rifiuto, ostilità e morte.
Due anni passarono sereni, poi un giorno Veronica sparì. "Sentiva la nostalgia del vagabondare" commentarono tristi i due anziani. Mi trovo in una parrocchia dall'altra parte del Paese. Di Veronica non ho saputo più nulla. Ma ad ogni Natale, la sua figura inerme in un pomeriggio afoso mi riappare e mi chiedo se c’è chi sa vedere in lei il Signore che viene.
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