Perché il Signore sembra tacere? Perché l'Onnipotente non si manifesta con lo sfolgorio della Sua onnipotenza? Perché quella Sua apparente indifferenza davanti alla tragedia della nostra vita? E' proprio vero che Gli stiamo a cuore? Che siamo importanti per Lui? (Libera lettura di alcune parole di Carlo Maria Martini - Messaggio per l’anno 1996-1997).
Non c'è da stupirsi che gente di fede si faccia queste domande in tempi di tragedia come questo: stanno nel cuore e inquietano, rendono pensosi e in ricerca. Eppure Dio sta dalla nostra parte e partecipa al dolore per il male che devasta la terra. Egli non è spettatore disinteressato o giudice freddo e lontano.
Dio soffre per noi e con noi, per le nostre solitudini, la nostra incapacità di amare e di risolvere i problemi. La sofferenza divina non è incompatibile con Dio: è la sofferenza dell'amore che si fa carico, la compassione attiva e libera, frutto di una gratuità senza limiti. Nel cammino della vita, alla luce del Vangelo, il Dio di Gesù Cristo ci appare come il Dio capace di tenerezza e di pietà fino al punto da soffrire con il mondo e per i peccati del mondo.
Un Dio che non rinnega mai i suoi figli. Un Dio umile, che manifesta la Sua onnipotenza e la Sua libertà proprio nella Sua apparente debolezza di fronte al male. Un Dio che per amore accetta di subire il peso del peccato, e del dolore che il peccato introduce nel mondo. Nella morte di Gesù sulla croce, Dio ci dice quanto bene può nascere dal male, quanta vita dalla morte.
La contraddizione non sta in Dio, ma nel nostro continuo voler essere gratificati da tutti e da tutto, a cominciare da Dio. Forse ci tocca capire che il mistero di un Dio morto e risorto è il centro del Vangelo e della nostra fede, e la chiave dell'esistenza umana!
Contro questa roccia del mistero pasquale vanno a cozzare le onde delle nostre resistenze, mentre diciamo con Pietro: Dio te ne scampi, Signore: questo non ti accadrà mai! Eppure proprio qui si ricongiungono i nodi del rapporto che lega morte e vita, dolore e gioia, fallimento e successo, frustrazione e desiderio, umiliazione ed esaltazione, disperazione e speranza.
La legge della Croce è la chiave di lettura della fede cristiana, e lo è di ogni vita umana, si creda o no. Quando ci tocca, ci sconvolge, ne siamo profondamente turbati. Eppure è qui che si realizza la piena liberazione dal male, fino ad accettarne le conseguenze su di sé per perdonarlo e superarlo, come ha fatto Gesù sulla croce e come possiamo fare noi, pur essendo umani e così fragili davanti alla vita, alla malattia, alla morte. E davanti agli eventi della storia che ci superano come in questo tempo.
Ha ragione, allora, Guido Dotti, monaco della comunità di Bose quando scrive, "Siamo in cura, non in guerra". Davanti a titoli come, “La viralità del linguaggio bellico”, “Siamo in guerra! Il coronavirus e le sue metafore”, Guido Dotti si ribella. "No, non mi rassegno. Quella del Covid 19 non è una guerra contro l'umanità. La metafora bellica ha un fascino, un’immediatezza e un’efficacia che non è facile debellare". Ma è pericolosa. Abbiamo bisogno di "una metafora diversa che renda giustizia di quanto stiamo vivendo e soffrendo che offra elementi di speranza e sentieri di senso per i giorni che ci attendono".
Artisti, studiosi, intellettuali e attori hanno scelto e illustrato "una parola significativa in questo momento storico e hanno fornito un prezioso vocabolario che spazia da armonia a vicinanza". Ma questi sono termini che non possono "fungere anche da metafora per l’insieme della narrazione della realtà che ci troviamo a vivere". E continua, "Per storia personale, formazione e condizione di vita, conosco bene il crinale discriminante, quello tra lotta spirituale e guerra santa o giusta, lungo il quale è facile perdere l’equilibrio e cadere in una lettura di se stessi, delle proprie vicende e del corso della storia secondo il paradigma della guerra. Ma allora, se non siamo in guerra, dove siamo? Siamo in cura!"
Tutti siamo in cura, anche il nostro pianeta, non solo i malati. E la cura abbraccia ogni aspetto dell'esistenza, non solo il dopo. La cura, può iniziare ora, anzi, è già iniziata. "La guerra e la cura hanno entrambe bisogno di alcune doti: forza (che non è violenza), perspicacia, coraggio, risolutezza, tenacia anche… Poi però si nutrono di alimenti ben diversi. La guerra necessita di nemici, frontiere e trincee, di armi e munizioni, di spie, inganni e menzogne, di spietatezza e denaro. La cura invece si nutre d’altro: prossimità, solidarietà, compassione, umiltà, dignità, delicatezza, tatto, ascolto, autenticità, pazienza, perseveranza". E tutti "possiamo essere artefici essenziali di questo aver cura dell’altro, del pianeta e di noi stessi con loro. Tutti, uomini e donne di ogni o di nessun credo, ciascuno per le sue capacità, competenze, principi ispiratori, forze fisiche e d’animo".
Tutti siamo artefici di questa cura: medici di base e ospedalieri, infermieri e personale paramedico, virologi e scienziati, governanti e amministratori pubblici, servitori dello stato e del bene comune, lavoratori e lavoratrici nei servizi essenziali, psicologi e assistenti sociali, volontari e insegnanti, docenti e discenti, uomini e donne dell’arte e della cultura, preti e vescovi, ministri dei vari culti e catechisti, genitori e figli, amici del cuore e vicini di casa.
"Sono artefici – e non solo oggetto – di cura i malati, i morenti, i più deboli, beni preziosi e fragili da maneggiare con cura, appunto: i poveri, i senza fissa dimora, gli immigrati e gli emarginati, i carcerati, le vittime delle violenze domestiche e delle guerre".
La consapevolezza di essere in cura – e non in guerra – è una condizione fondamentale per il dopo: "il futuro sarà segnato da quanto saremo stati capaci di vivere in questi giorni, sarà determinato dalla nostra capacità di prevenzione e di cura, a cominciare dalla cura dell’unico pianeta che abbiamo a disposizione. Se sappiamo e sapremo essere custodi della terra, la terra stessa si prenderà cura di noi e custodirà le condizioni indispensabili per la nostra vita".
Esistono malattie inguaribili, "non esistono né mai esisteranno persone incurabili". Le guerre finiscono, la cura non finisce mai. "Non siamo in guerra, siamo in cura! Curiamoci insieme".
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