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Amore sacro e profano

La Stampa 14.07.2024 Vito Mancuso Tradotto da: Jpic-jp.org

La separazione tra amore sacro e amore profano a questo punto scompare, perché quando si scende in profondità l’amore è sempre e solo sacro.

In quest’epoca di chiacchiere, rumore e conseguente confusione il compito del pensiero è di introdurre chiarezza, rigore e pulizia nella mente, e da lì nel cuore. Per questo, parlando dell’amore, inizio dandone una definizione: “attrazione irresistibile che provoca nel soggetto un permanente cambiamento di stato”.

L’amore non è semplice attrazione, per poterlo avere nella sua autenticità l’attrazione deve essere “irresistibile”; in caso contrario si ha solo interesse, simpatia, inclinazione, affetto, trasporto, non però amore. Si tratta della differenza che intercorre tra dire “ti voglio bene” e dire “ti amo”: noi possiamo dire “ti voglio bene” a molte persone, mentre “ti amo” solo a poche, anzi a pochissime, forse a una sola. E non è certo un caso che mentre tutti sanno dire “ti voglio bene”, non tutti sanno e possono dire “ti amo”.

Naturalmente questo vale a condizione che si usino le parole con il giusto peso, perché laddove non è così si può dire di tutto, per esempio “oh come ti amo” a chi ci dà un passaggio, oppure chiamare “amore” ogni persona o cagnolino che si incontra. Questo uso delle parole fa perdere loro valore secondo quel processo in economia detto inflazione che designa la perdita del potere di acquisto della moneta; ebbene, c’è una perdita del potere di acquisto anche delle parole, perché se si usa “amore” con tale disinvoltura, come si chiamerà un giorno la persona che sarà unica e che se non dovesse esserci più provocherebbe in noi un vuoto incolmabile?

L’amore, quindi, è attrazione irresistibile. Per poter essere veramente tale differenziandosi dall’innamoramento di cui è per così dire un upgrade, deve produrre nel soggetto che lo vive un cambiamento “permanente” di stato. Si tratta del medesimo cambiamento che avviene nell’atomo di ossigeno quando si associa a due atomi di idrogeno generando la molecola dell’acqua: allo stesso modo, anche la coppia non è più due atomi, ma diviene una molecola. Dalla chimica alla fisica: oggi in fisica quantistica si parla di salto quantico per designare un cambiamento improvviso di stato o di livelli energetici, ebbene l’amore, per essere tale, deve generare un salto quantico, un passaggio di stato. “Incipit vita nova”, scrisse Dante all’inizio della sua opera omonima per celebrare la sua nuova esistenza illuminata dall’amore per Beatrice, donna reale e al contempo allegoria della filosofia (condotta alla luce della teologia) e insieme della teologia (condotta alla luce della filosofia). Anche tra filosofia e teologia infatti si può dare una simbiosi tale da produrre una nuova molecola spirituale: il suo nome in greco antico è “Sophía” [sapienza].

Tale cambiamento di stato da singolo atomo a molecola spirituale generato dall’amore è rispecchiato dal linguaggio che designa i due membri della coppia con nomi quali “coniuge” (da cum + iungo, mi unisco con), “consorte” (condivido la mia sorte con), “compagno” (cum + panis, mangio il mio pane con). Se quindi è vero che l’amore destabilizza perché si presenta come un improvviso e talora anche non voluto cambiamento di stato, è ancora più vero che poi stabilizza a un livello superiore, diviene fonte di solidità, forza, fortezza, rocca, rifugio, il più sicuro dalle tempeste della vita.

C’è anche un amore per Dio. Quando uno scriba chiese a Gesù quale fosse il primo dei comandamenti, egli rispose: “Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Ma cosa significa, esattamente, amare Dio? Cosa si ama, quando si dice di amare Dio?

Nella vita di un essere umano l’amore per Dio si manifesta inizialmente come attaccamento alla propria religione con i suoi simboli, le sue dottrine, le sue liturgie, i suoi rappresentanti. Così uno dice di amare Dio e in realtà ama la Chiesa, la Bibbia, il Papa, le dottrine e i dogmi del catechismo, producendo questo frequente cortocircuito: Dio – Religione – Chiesa. Lo notò alla perfezione Spinoza nel 1670: “Per il volgo religione significa tributare sommo onore al clero”.

Quanto più però si procede nella maturità spirituale, tanto più ci si rende conto di come la divinità sia ben al di là degli insegnamenti e dei riti veicolati dalle religioni. È quanto insegna l’esperienza dei mistici. Scrive Gregorio di Nissa, padre della Chiesa del IV secolo: “Là è la divinità, dove non giunge la comprensione”. Ovvero fino a quando vi è comprensione, non vi può essere autentica esperienza di Dio. Agostino un secolo dopo dice la stessa cosa: “Se lo hai capito, non è Dio”. A maggior ragione torna però la domanda su cosa significhi amare Dio: come posso amore ciò che non capisco? Agostino si poneva la questione rivolgendosi direttamente a Dio: “Che cosa amo veramente quando amo te?”.

Nella risposta non nomina né la Chiesa, né la Bibbia, né Gesù, procede piuttosto negando una serie di cose belle quali oggetto del suo amore per Dio: “Non la bellezza del corpo, non la grazia dell’età, non il fulgore della luce, non le dolci melodie dei canti, non la fragranza dei fiori, unguenti, aromi, non la manna e il miele, non le membra fatte per gli amplessi carnali: non è questo che amo amando il mio Dio”. E poi prosegue: “Eppure, amando il mio Dio amo una certa luce e una certa voce e un certo profumo e un certo cibo e un certo amplesso”. E precisa: “La luce, la voce, il profumo, il cibo e l’amplesso dell’uomo interiore che è in me”.

Ecco il punto: amando Dio, si ama la luce della nostra interiorità. Vale a dire la promessa di senso, di bellezza, di giustizia, di bene, contenuta dentro la nostra coscienza e in cui la nostra coscienza ultimamente consiste. Appare quindi che tra amore di Dio e amore di sé non vi è opposizione; anzi, amando Dio si ama la luce dell’uomo interiore che è in noi.

Molti secoli dopo Agostino, ragionando sull’amore umano, il giovane Hegel a 28 anni scrisse: “L’amore può aver luogo solo nel porsi dinnanzi a un nostro eguale, dinnanzi allo specchio e dinnanzi all’eco della nostra essenza”. È esattamente la stessa dinamica colta da Agostino a proposito dell’amore per Dio! Amo Dio e amo la luce dell’uomo interiore che è in me. Amo lei (o lui) e amo la luce dell’uomo interiore che è in me.

Supremo egoismo? No, perché se io amo esco da me, c’è un cambiamento di stato: ma questo cambiamento è in realtà compimento. Noi ci compiamo quando ci uniamo con la nostra metà ricreando l’uomo originario, secondo il mito di Platone narrato nel Simposio; e ci compiamo quando ci uniamo con la promessa di senso, bellezza, giustizia e amore veicolata dal concetto di Dio.

La separazione tra amore sacro e amore profano a questo punto scompare, perché quando si scende in profondità l’amore è sempre e solo sacro.

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