Gli opinion-gate, disposti a frenare, sviare, sminuire, far sparire la verità contraria agli interessi di chi è al potere e ha in mano i mezzi di comunicazione son sempre esistiti. Con la TV e i giornali, le celebrazioni sono diventate un grande mezzo di fare informazione, anche quella falsa. Nel suo libro “In praise of the blood. The crimes of the Rwandan Patriotic Front” (pp. 50-53), Judy Rever, parlando del Ruanda e del Congo, mostra come Kagame e i suoi padrini, sono riusciti a far tacere la verità anche all’unico organismo mondiale, l’ONU, che celebra gli autori di violenze invece di condannali. È quanto succede ogni anno il 6 di aprile in occasione dell’anniversario del genocidio ruandese.
Figlio di un operaio edile e di una femminista cattolica, Luca Côté era cresciuto in un quartiere della classe operaia di Montreal. Alla fine, divenne avvocato pubblico e forniva assistenza legale a ladri, tossicodipendenti e malati mentali. Dopo il genocidio, quando l’ONU avevano bisogno di avvocati bilingui in Ruanda, fu tra i primi avvocati franco-canadesi ad arrivare nel paese.
Nelle aree al di fuori della capitale Kigali, i corpi stavano ancora marcendo nei fossi, nelle latrine, nelle chiese e nelle fosse comuni. I cadaveri che erano stati accatastati lungo le strade e nei campi si seccavano sotto un sole cocente [...].
Nel 1995, Côté entrò a far parte dell'Ufficio del Procuratore presso il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Come capo dell'ufficio legale per quattro anni, scrisse incriminazioni e aiutò ad organizzare gli arresti di organizzatori e autori del genocidio. Al tempo stesso, vide in prima persona l’ombra oscura dell'oppressione che il governo post-genocidio di Kagame stava intraprendendo, sotto lo sguardo impotente della comunità internazionale.
Prima di entrare a far parte del tribunale, Côté aveva lavorato come osservatore dei diritti umani dell’ONU nel Ruanda meridionale, indagando sugli arresti arbitrari e le sparizioni di hutu per mano delle forze tutsi. Fu lì, dopo aver assistito a terribili incidenti, che scoprì che "queste persone [del regime di Kagame] erano cattive come le altre". Intendeva cattive quanto gli Hutu génocidaires.
Nell'aprile 1965, lui e i suoi colleghi delle Nazioni Unite erano a Kibeho per monitorare un vasto campo per gli sfollati internazionali Hutu che l'RPF voleva chiudere. Il campo si trovava in una zona di sicurezza umanitaria istituita dalle forze militari francesi durante il genocidio e fu successivamente monitorato dai Caschi Blu dell’ONU. Il 22 aprile, le forze dell'RPF aprirono il fuoco sul campo, provocando la fuga di decine di migliaia di hutu nel tentativo di salvarsi la vita. Il personale dell’ONU vide i soldati Tutsi sparare alle spalle di donne e bambini mentre cercavano di fuggire, e molti Hutu morirono nella calca. Il personale medico australiano estimò più di 4000 i morti, ma gli ufficiali ruandesi dissero che solo 338 persone furono uccise. Tre giorni dopo il massacro di Kibeho, Côté scrisse un articolo di opinione per Le Devoir di Montreal in cui si interrogava sul perché gli Hutu, che erano fuggiti in Zaire e Tanzania, non fossero tornati in Ruanda anche se la guerra era finita. Sottolineò che molti Hutu nei campi profughi avevano cercato di tornare a casa, ma erano finiti per ritornare ai campi di sfollati a causa dell'insicurezza nel loro villaggio. Ed avvertii che la situazione dei diritti umani in Ruanda si stava rapidamente deteriorando [...].
Nel 2005, più di un decennio dopo il suo primo periodo in Ruanda, Côté tornò nel centro dell’Africa, questa volta in Congo, per guidare una quadra investigativa di 34 persone, che lavorava con gli abitanti del villaggio, le famiglie delle vittime, i gruppi di diritti umani e i bambini soldato, per raccogliere prove di alcuni dei peggiori crimini contro l'umanità della storia recente. Durante un'intervista davanti a un espresso, al suo ritorno, mi disse che non si sarebbe mai aspettato una violenza "così devastante, così estesa e così brutale".
Côté disse: "Pensavo di aver visto il peggio con il genocidio in Ruanda. In Congo abbiamo testimonianze che è stato altrettanto grave o addirittura peggiore di quello che è successo in Ruanda. In Ruanda è durato tre mesi. In Congo non si è mai fermato. La sua voce si fece rauca. "Ho visto in Congo lo stesso schema che avevo visto in Ruanda. Con dozzine e dozzine di incidenti in cui ci sono gli stessi schemi. [I massacri] fatti sistematicamente”.
Nell'agosto 2010, un mese prima che l’ONU progettasse di pubblicare ufficialmente i risultati dell'inchiesta, una bozza del report trapelò al quotidiano francese Le Monde. Nel giro di poche ore, presentai un testo per AFP.
Il rapporto di 560 pagine, riguardante il periodo dal 1993 al 2003, era intitolato Mapping Human Rights Violations. Nel gergo giuridico dell’ONU il termine "mappatura" significa fornire un inventario e una classificazione dei crimini. Gli investigatori trovarono prove che l'Esercito Patriottico Ruandese (RPA) e i suoi alleati ribelli usavano zappe, baionette e asce per massacrare gli Hutu ruandesi e congolesi, spesso per far prima uccidendoli in gruppi. In molti casi, le vittime erano stuprate, bruciate vive o fucilate. Il rapporto indicava che la stragrande maggioranza degli Hutu uccisi erano "donne, bambini, anziani e malati che non rappresentavano nessuna minaccia per le forze d'attacco". Gli autori concludevano che le truppe di Kagame potevano aver commesso un genocidio in Congo. "Gli attacchi sistematici e diffusi descritti nel rapporto ... hanno rivelato una serie di elementi schiaccianti che, se provati davanti a un tribunale competente, potrebbero essere classificati come crimini di genocidio”. L'ONU chiese un'indagine giudiziaria completa.
Il Ruanda reagì rapidamente e con furia. Il governo definì i risultati "immorali e scandalosi" e convinse i suoi sponsor occidentali ad affondare la metodologia dell’équipe dell’ONU. Kigali minacciò perfino di ritirare le sue truppe dalle missioni di pace dell’ONU. La pressione ha probabilmente cancellato ogni speranza che l'ONU appoggi un tribunale in Congo per perseguire Kagame e gli assassini.
Nel frattempo, un rinomato investigatore forense era già in Congo ad addestrare un team di scienziati locali, agenti di polizia, personale dell'esercito e attivisti per i diritti umani per indagare sulle fosse comuni trovate. José Pablo Baraybar, uno scienziato forense peruviano che ha lavorato a Srebrenica, Haiti ed Etiopia, aveva ricevuto sostegno finanziario dall'American Bar Association e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti per il programma di formazione di tre mesi. Baraybar ha raccontato che la sua squadra riceveva un notevole aiuto anche dagli abitanti dei villaggi congolesi. Ma, quando arrivò ad aprire le fosse comuni a Rutshuru - una città dove le squadre di uccisione mobili di Kagame avevano commesso alcune delle peggiori atrocità all'inizio dell'invasione - il governatore provinciale bloccò le indagini. "Nemmeno Kinshasa era disposta a dare la sua approvazione", mi disse Baraybar. Joseph Kabila, che aveva preso il posto di suo padre, Laurent, assassinato dalla guardia del corpo nel 2002, "evidentemente stava giocando il doppio gioco".
"Sul campo, un'analisi forense non era possibile, da nessuna parte", disse. "Era chiaro che il Ruanda aveva usato la sua influenza in Congo e all'estero per soffocare un'indagine completa".
Più di dieci anni dopo che Kagame aveva costruito le sue stazioni all’interno di Rutshuru e in altri villaggi congolesi, la sua capacità di manipolare la realtà e influenzare la vita delle persone era ancora intatta.
La mia intervista [È Judy Rever che parla] con Baraybar mi ha fatto pensare a cosa fare dopo. L’ONU aveva denunciato i crimini – atti odiosi commessi dalle truppe di Kagame in Congo – eppure nessuna autorità internazionale aveva avuto il coraggio di ritenere Kagame o i suoi comandanti responsabili. Era come se nessuno potesse immaginare di perseguire l'uomo accreditato di aver fermato il genocidio ruandese, indipendentemente da ciò che faceva. L'ingiustizia era sbalorditiva. E alla fine mi sono resa conto che l'unico modo per convivere con quello a cui avevo assistito in Congo era che io tornassi indietro nel cuore del genocidio ed esaminassi esattamente cosa aveva fatto l'RPF. E poi pubblicare quello che avrei trovato.
La parola di una vedova termina il libro in che racconta ciò che ha trovato: "Dobbiamo fingere che non ci sia nulla di sbagliato. Ma non lo accetterò mai”. La paura divora la verità e il potere celebra le bugie. Benvenuto 6 aprile.
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