“Accettare la queerness come prassi cristiana significa riconoscere che il confine non ci circonda, ma ci attraversa, e che quel che avvertiamo come contraddizione è in realtà uno spazio fecondo di cui non abbiamo ancora compreso il potenziale vitale”.
È stata recentemente pubblicata la traduzione italiana del Commentario queer alla Bibbia per le edizioni EDB. Molti si saranno chiesti il senso di questa operazione. Proverò a spiegarlo.
Negli ultimi decenni la questione del genere e delle sue definizioni è stata affrontata in modo consistente dal mondo accademico internazionale. La categoria di genere permette infatti di indagare come stereotipi e ruoli di genere tradizionali abbiano avuto impatto sulla determinazione della vita e delle relazioni sociali e politiche di uomini e donne, producendo privilegi, emarginazioni, sistemi ingiusti e perfino violenze.
Gli studi di genere interpellano anche la scrittura
La teologia non può evitare di affrontare queste tematiche, poiché le riflessioni e le intuizioni degli studi di genere interpellano la letteratura di ogni tipo, compresa quella biblica, hanno impatto sull’immagine biblica e cristiana dell’essere umano e sugli aspetti istituzionali della Chiesa.
Per comprendere come si sia arrivati ad avere una lettura queer del testo biblico occorre partire dalla “rivoluzione copernicana” della lettura femminista della Bibbia.
L’esegesi femminista, dapprima svolta nella storia da singole donne e poi via via in modo sempre più consistente dalle donne in quanto soggetto collettivo (abbiamo più volte parlato del progetto Woman’s Bible 1895-), ha iniziato contestando che la Bibbia giustificasse la concezione sessista e patriarcale delle donne come subordinate e funzionali. Le esegete americane della fine del XIX secolo, capeggiate da Elizabeth Cady Stanton, furono mosse dalla rivendicazione del diritto di voto. Poiché i loro detrattori utilizzavano passi biblici per giustificare la loro esclusione dai diritti politici e sociali, le suffragette americane si sono date gli strumenti culturali adeguati per accostarsi alla lettura critica del testo sacro, per vagliarlo al di là delle interpretazioni correnti (con la cosiddetta “esegesi del sospetto”) e per correggerne l’interpretazione mistificante che le voleva emarginate e oppresse. Hanno così messo in evidenza la presenza nella Bibbia di donne significative sfuggite alla trasmissione della cultura maschile, donne sovente non allineate agli stereotipi del femminile, che infrangevano le attese sociali. Hanno applicato come regola della loro esegesi il messaggio di liberazione della Bibbia, una liberazione da tutte le strutture oppressive, politiche, religiose e sociali, patriarcato compreso.
Gli autori dei testi biblici avevano visioni antropologiche e del mondo condizionate dalle conoscenze del loro tempo. Gli antichi non conoscevano certo il complesso sviluppo dell’identità sessuale e di genere di una persona. Non conoscevano la parola queer e non riflettevano esplicitamente sulle categorie di sessualità, identità sessuale, omoaffettività. Tuttavia, poiché le storie bibliche sono tutte storie che sfidano le aspettative, le facili categorizzazioni, sono anche storie di personaggi strani, porosi, fuori dagli schemi e proprio l’applicazione della categoria queer permette di rileggere il testo rilevandone nuovi significati e sfidandoci a nuove liberazioni sociali.
Ma cosa significa queer? Il termine queer intende riferirsi a tutto ciò che di strambo, storto nel senso di non allineato, possa presentarsi in una identità personale decostruendone la definizione pubblica e sociale.
Ci sono molti personaggi di questo genere nella Bibbia. Abramo e Sara sono una coppia anomala, non propriamente una coppia perché figli dello stesso padre, non riescono ad avere figli come le normali coppie tradizionali; non esitano a ricorrere a metodi inconsueti per avere figli; molte matriarche non appaiono conformi ai modelli che il patriarcato prescrive per le donne, infatti spesso sono sterili – cosa che le colloca al di fuori dello stereotipo del ruolo materno della donna; gli stessi patriarchi (si pensi ad Isacco o a Giuseppe) non realizzano la mascolinità eteronormativa che ci si aspetta da loro. Ritroviamo nei racconti biblici poligamia, maternità surrogata, incesto e matrimonio tra parenti stretti; si narra di donne che si uniscono come una coppia dopo la morte dei loro rispettivi mariti (Rut e Noemi).
Un Dio che è sempre oltre dove ce lo aspettiamo
Dio stesso è queer, un Dio che trasforma, che scompagina e rivoluziona le aspettative sociali e religiose, le norme che regolano il potere, comprese le norme sessuali.
Le narrazioni bibliche ci parlano di un Dio che sta sempre oltre dove ce lo si aspetterebbe, un Dio che spiazza come uno straniero, che estrania ed è straniante; un ospite spesso inopportuno; una presenza invocata ma presto quasi indesiderata perché Dio quando interviene rovescia la situazione in qualcosa di tutt’altro da come ce la saremmo augurata. Il divieto del Decalogo di farsi immagine di Dio dovrebbe essere un promemoria permanente del fatto che Dio non rientra in nessuna categoria, ma è piuttosto il totalmente altro che trascende le categorie. Cercare la queerness nella Bibbia significa allora accorgerci di queste stranezze negli eventi e nei personaggi della Bibbia che trascendono le tradizionali caratteristiche sociali e culturali e ci ricordano che Dio risplende nel volto di ogni essere umano, per quanto strano, comunque creato a sua immagine, un Dio sempre diverso dalle immagini che ci facciamo di lui.
Il Dio biblico è queer perché è eccessivo nel suo amore, esce da se stesso per venire incontro all’essere umano, è strambo, poliamoroso, scandaloso, nel senso etimologico del termine, perché pone inciampi al nostro cammino lineare. Lo definiamo con un ruolo patriarcale, chiamandolo Padre, ma nella tradizione cristiana più che un riferimento simbolico ad un ruolo, si rivela come dinamica amorosa di scambi trinitari (perichoresis).
Il Dio trinitario non rimanda ad un modello di famiglia patriarcale, anzi la scardina. Infatti nella stessa Bibbia Dio presenta un aspetto femminile nella figura della divina Sapienza (Hockmah) e ama tramite una forza che è femminile in ebraico (ruah), neutra in greco (pneuma) e maschile in latino (spiritus). Le raffigurazioni della Trinità la ritraggono come una drag queen, con tre volti femminei ma barbuti (cfr. affresco di S. Pietro a Perugia).
Gesù stesso si sapeva inviato soprattutto a coloro che erano gli emarginati e i discriminati del suo tempo. La sua intenzione era quella di offrire loro relazione e vita, di integrarli nella comunità e di comunicare loro che erano figli e figlie di Dio.
Il Dio di Gesù Cristo, non appare un Dio padre padrone/padrino: piuttosto è la fonte comune che mette tutti gli esseri umani sullo stesso piano. Lo stesso Gesù, presenta una maschilità alquanto fuori degli schemi: non aderisce a un modello di potere fallocentrico e dominante, ma di servizio. Capace di ascoltare i desideri degli uomini e delle donne attorno a lui, Gesù appare un maschio che evita il centro. Percorre infatti villaggi di secondaria importanza. Non si fa chiamare maestro. Esce da uno schema di maschilità androcentrica per presentare un modello di umanità dove la maschilità e la sua identità si definiscono in relazione ad altri: Dio, fratelli/sorelle, non primariamente a partire da sé, come una identità fallocratica e autosufficiente. Tutta la sua vita appare come un trascendere i modelli relazionali tradizionali, gli schemi consueti: si rivolge ai peccatori, alle donne, ai bambini, agli schiavi, ai malati, agli abbietti, a tutti coloro che erano ai margini, esclusi dalla “normalità” e dalla cittadinanza del potere, della parola, dell’azione. Si fa beffe della famiglia di sangue, si attornia di una famiglia di elezione in cui l’attenzione non si concentra sul rapporto di sangue ma sul rapporto d’amore e di cura. Non si cura della sua reputazione pubblica, frequentando volentieri pubblicani e peccatori. Chiama ad una relazione intima con lui con uomini del suo stesso sesso e si rivolge in modo inconsueto anche a donne non conformi che chiama alla sua sequela. Si fa accanto come maestro, amico, compagno, ma anche come straniero. Gli stessi suoi discepoli fanno fatica a incasellarlo all’interno di uno schema prefissato di rabbino, messia religioso o guida politica. Egli è sempre oltre, sempre altrove. Un Gesù queer testimone di un Dio queer.
Riscoprire un Dio che nella sua alterità rimane un mistero
Il Dio che “rovescia i potenti dai troni” (Lc 1,52) appare sempre a fianco degli oppressi, degli esclusi e dei perseguitati: dagli schiavi alle identità sociali (e sessuali) considerate “devianti” dal modello, cioè queer.
Usando il queer come metodo esegetico, ci si ritroverà a sottolineare qualcosa che è già presente nelle pieghe del testo sacro ma al quale siamo stati resi ciechi per la consuetudine con un solo tipo di interpretazione: quella eteronormata, spesso sessista, classista, imperialista e colonialista.
Riscoprire un Dio che nella sua alterità rimane un Mistero, che non rientra mai del tutto negli schemi umani e che quindi spinge alla trasformazione e dunque all’evoluzione spirituale, significa assumere uno sguardo obliquo (queer) sul mondo e ci sfida a trovarlo. Di conseguenza una lettura queer potrà liberare Dio stesso dalle strettoie in cui una cultura patriarcale, androcentrica, machista, binaria e colonialista lo ha relegato nel momento in cui i testi biblici venivano “confezionati”.
Poiché l’immagine che abbiamo di Dio – anche quando non crediamo alla sua esistenza – ha sempre un impatto nel modo in cui viviamo e costruiamo le nostre relazioni umane e sociali, una operazione esegetica di questo genere non sarà senza conseguenze a livello di giustizia sociale. Liberare Dio dagli angusti confini sessuali e ideologici nei quali è stato collocato, significa infatti anche liberare le persone rimaste al di là di tali confini.
Tutta la Bibbia non è altro che una serie di storie di inversioni e rovesciamenti, anticipo di quel rovesciamento di valori che Cristo è venuto a portare nel mondo, quello tra vita e morte, tra maschi e femmine, tra schiavi e liberi, tra potere e servizio, tra potenza e debolezza. La visione del mondo evangelica del resto è di per sé una visione dislocata, perché la fede dei personaggi della Bibbia in fondo è uno sguardo, una postura diversa degli occhi (spirituali) sulle cose del mondo. Le narrazioni bibliche sono tutte narrazioni che scompigliano le certezze o non starebbero nella Bibbia.
Il confine ci attraversa
Non è strano dunque che quando ci accostiamo con attenzione ai racconti biblici troviamo la narrazione di eventi, personalità, ruoli sociali, identità sessuali porose. Con porose s’intende proprio ciò che la parola queer veicola: il fatto cioè che il testo biblico nasconde sempre una stranezza, la stranezza stessa che la Rivelazione apporta nelle storie, la stranezza di un Dio che è altro in sé stesso, in quanto trinitario; la stranezza di un rivelatore che appare intrecciato alla limitatezza, alla frammentarietà e al fraintendimento dell’umana parola e della comunicazione umana. In questo senso, si può anche dire che almeno nel dato dell’incarnazione la teologia cristiana presenta un dato di panenteismo che fa crollare tutti i binarismi di filosofica memoria che vedono nell’elenco delle categorie il primo soggetto sempre positivo e il secondo negativo: uomo/donna, alto/basso, Dio/mondo, io/altro, uomo/natura, ragione/sentimenti, dentro/fuori etc.
Dunque prima che essere un messaggio sulla sessualità, una lettura queer vuole proporre una lettura di giustizia, un messaggio di eguaglianza sociale ricordando a noi stessi e agli altri che la Bibbia è tutt’altro che un manuale di codificazioni rigide, ma il luogo in cui ritrovare la chiave della complessità e della porosità delle vite, delle identità e dei vissuti di ciascuno di noi.
Conclude M. Murgia, alla quale l’opera è dedicata, nel suo God Save the queer: “Accettare la queerness come prassi cristiana significa riconoscere che il confine non ci circonda, ma ci attraversa, e che quel che avvertiamo come contraddizione è in realtà uno spazio fecondo di cui non abbiamo ancora compreso il potenziale vitale”.
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